Com’era prevedibile, ma vi è stata tensione fino all’ultimo, il Parlamento Europeo, riunito in seduta plenaria, ha oggi rigettato il trattato ACTA (478 voti contro il trattato, 39 a favore, 165 astenuti). La decisione, ora definitiva, rispecchia le precedenti risoluzioni di varie comitati del Parlamento, che avevano appunto invitato l’assemblea a rifiutare la ratifica. Ora il Trattato ACTA non potrà vincolare nè l’Unione Europea nè gli Stati membri. La Corte di giustizia dell’Unione Europea, cui la Commissione Europea ha chiesto un parere, si pronuncerà comunque. Sarà perciò interessante leggere cosa scriveranno i giudici di Lussemburgo, al fine di meglio capire da dove ripartire.
Ciò detto, occorre chiedersi se il trattato ACTA meritasse una fine così miserabile. Direi di sì sul metodo, meno sul merito.
ACTA è nato male, perchè i negoziatori (lobbati dalle grandi industrie dell’entertainment) hanno pensato che fosse possible, a porte chiuse e senza adeguata trasparenza, riscrivere una serie di norme importanti non solo per il commercio ma anche per i diritti fondamentali della gente. Le negoziazioni iniziarono nel 2007 nel più assoluto segreto di fronte all’opinione pubblica (la segretazione fu successivamente confermata dallo stesso Obama, ops!). Solo dal 2009, con una serie di leaks, il pubblico e le associazioni dei diritti civili cominciarono a capire cosa stesse succedendo: per fare pochi esempi, venivano suggerite pene carcerarie per violazioni di copyright anche senza fini di lucro; si intendeva imporre, attraverso collaborazioni obbligate, un controllo forzato dell’industria del copyright sui fornitori di accesso Internet, con responsabilità penale in caso di rifiuto; si prevedevano intercettazioni delle comunicazioni elettroniche senza bisogno di alcun mandato giudiziale; e così via. In buona sostanza, la mission era quella di consegnare Internet ai voleri dell’industria tradizionale dell’entertainment.
La stessa Unione Europea al suo interno si era mossa con poca trasparenza: alcune direzione generali apparivano completamente all’oscuro di ciò che la Direzione Generale di De Gught stesse negoziando. Il Parlamento europeo era parimenti non informato. Gli stakeholders non sapevano neinte, tranne quelli che per diritto divino e cooptazione erano stati accolti nel santuario di ACTA. E sì che tutto questo accadeva proprio mentre l’Unione Europea avviava dibattito e consultazioni per affrontare il tema della pirateria online e dell’adeguamento della normative del copyright in Internet.
L’ultima versione del trattato ACTA, quella firmata a Tokio il 26 gennaio di quest’anno, era stata in gran parte depurata dei principali motivi di preoccupazione (pur rimanendo delle zone grigie), ma il peccato originale restava. Non si possono riscrivere le regole fondamentali dell’Unione Europea attraverso negoziazioni vischiose, misteriose ed esclusive. Più che ACTA, è stato quindi bocciato il “metodo ACTA”.
A chi servirà questa lezione? Pensiamo ad esempio all’attuale “dibattito” (per la verità molto misterioso) sull’Internet Governance in sede ITU. Vi possono solo partecipare gli Stati membri, mentre per tutti gli altri vi è una sorta di “gradimento” (immagino che qualcuno sarà gradito meno di altri). Nell’ambito di tale oscuro processo è stato presentato il famoso emendamento ETNO che vorrebbe applicare a Internet il sistema di tariffazione telefonica, riportandoci all’indietro all’epoca delle prime centrali telefoniche. Mi sembra molti Stati e stakeholders stiano per ripetere lo stesso errore di ACTA. Per fortuna, però, la Commissione Europea ha già preso le distanze, facendo capire che non delegherà all’esclusivo club di Ginevra la riscrittura delle regole dell’Internet.
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